Diario di bordo, Anno di navigazione 602. Giorno 2015. Esplorazione del Pianeta Rosso.
Il radar installato nel pannello di comando ha emesso un suono. Poi un altro, più intenso. Sono passati 2015 giorni da quando ho lasciato la Terra. Duemilaquindici giorni dall'ultima volta che ho posato il mio sguardo sul viso di mia figlia. Ricordo che sorrideva e agitava la manina mescolandosi nella folla mentre ogni mio battito, di ciglia e del cuore, le sussurravano tutto il mio amore. Dal suo sguardo bruno riuscivo a leggere chiaramente un comando, un torna presto a caratteri cubitali, incastrato nella retina umida di lacrime che sarebbero sgorgate fuori come un fiume in piena nei giorni a seguire.
Duemilaquindici giorni.
Quasi avevo dimenticato cosa volesse dire sentire. E' troppo tempo che aspetto quel bip. Quarantottomilatrecentosessanta ore, un lasso di tempo indescrivibile, un'infinita corsa dietro ad un treno sadico che, incurante degli sforzi per fermarlo, si allontana fischiando divertito. Un'interminabile attesa che mi ha reso vulnerabile. Avevo perso le speranze, ormai mi ero rassegnato all'idea che il radar fosse rotto e che non lo avrei sentito emettere suoni. Ero partito lasciando tutto, la mia vita, il mio pianeta, i miei affetti per niente, niente diamine!
Per duemilaquindici giorni ho percepito solo l'eco sordo dei miei pensieri carichi di buio che si alternava ad immagini di un passato troppo lontano che rimbombava nel vuoto del cosmo. Percepivo una sensazione che scorreva lungo tutta la schiena come un brivido e sentivo che lentamente l'oscuro essere informe che avvolge tutte le cose, mi inghiottiva per essere parte del suo mistero ancora un po'.
Ho provato a contrastare la mia fragilità con grande sforzo. Per diversi giorni mi sono concentrato a indirizzare i miei pensieri su un unico focus, un particolare. La quiete che regnava nell’Enterprise. Avevo imparato a sviluppare un sesto senso, distinguevo chiaramente lo scricchiolio dell'aria calda che, lasciando il mio corpo, scivolava dalle narici e si insinuava all'interno del piccolo ambiente metallico monoposto. Una sorta di fruscio debole, un suono nel nulla, il quale però si prende gioco di me, muta in materia, assume le sembianze di nuvolette soffici colme di ossigeno e vita e mi fissa diamine! Una metamorfosi che mi fa ripiombare nel silenzio di un "qual'è la risposta all'universo?".
bip. bip. bip.
Per un attimo ho creduto di aver sognato. Non poteva essere vero. Il radar mi stava finalmente suggerendo che un pianeta di lì a poco si sarebbe palesato proprio davanti ai miei occhi. Un mondo che, al 75% delle probabilità, ospitava la vita.
Ero incredulo, poi euforico e impaurito e smarrito poi ancora concentrato, tecnico, schematico, schiavo di procedure di cui non ricordavo quasi più l'esistenza. Ma mai avrei potuto immaginare quel che mi aspettava. E che il Pianeta Rosso mi avrebbe cambiato per sempre.
Il duemilaquindicesimo giorno di un viaggio verso l'ignoto sono atterrato in un mondo coccolato da un sole caldo e mite. Il cielo era limpido e la crosta ricoperta da un letto di terra rossa. Ricordo che profumava di estate e pace.
La prima volta che ho messo piede sul morbido suolo alieno, sono stato catapultato in unricordo e mi son ritrovato bambino, niente spazio-tempo, niente droni o macchine che amano distruggere ciò che di bello c'è in Terra. Solo un piccolo me, con le lentiggini e i capelli a spazzola e le vacanze dai miei nonni, in una terra paradisiaca dove l'amore si respira a pieni polmoni.
Ho subito tolto il casco. L'aria sul Pianeta Rosso era pulita. Niente smog e tossine. L'ossigeno si faceva largo tra i miei polmoni e mi riempiva di una vita che avevo perso molti mesi prima. Giurerei di aver sentito il rumore del mare mischiarsi al canto delle cicale nel fiore dei loro fulminei anni, ma forse era solo l'urlo rotto del ricordo d'infanzia che implorava di rimanere in vita e si aggrappava con le unghie ad un presente spigoloso e ribelle che stavo vivendo su un mondo nuovo e sconosciuto.
Ho sentito la vita. Sì, finalmente avevo ripreso a sentire. I Rumori, gli odori, persino le sfumature di colore si tramutavano in sensazioni. Come se i cinque sensi si fossero risvegliati dal letargo e fossi ritornato alla normalità, un quotidiano che neppure la Terra avrebbe potuto restituirmi. In quel momento capì che mi ero innamorato del Pianeta Rosso. I richiami all'infanzia, la bellezza della natura incontaminata, tutto mi riportava a casa.
Il rosso mi stringeva in un abbraccio in cui mi sarei rifugiato per sempre. Ovunque io guardassi, lo trovavo. C'era del rosso anche su dei tronchi simili a grossi ulivi. Delle enormi X rubescenti che contrassegnano piante e foglie risplendo come lingue di fuoco.
Mi avvicinai alle piante per scrutarle più da vicino. Mossi pochi passi, quando mi accorsi di un tubo trasparente sotto al mio piede destro, era simile ad un endotracheale da ospedale e sbucava dal terreno. Si intrecciava alle imponenti radici dell'ulivo alieno e lo stesso facevano diversi dotti con gli alberi vicini e tutti confluivano in un grosso schermo che sembrava monitorasse parametri vitali.
"Cosa fai! Sposta immediatamente quel piede"
Mi sono voltato, incuriosito dal suono della voce roca alle mie spalle. Un anziano dal viso scavato e rugoso, con i capelli di un bianco liquido come schiuma marina e una gracilità nascosta dentro ai suoi indumenti logori si era fiondato su di me, facendomi indietreggiare e liberando il tubo dalla morsa del mio piede. Un'ondata di aria calda mi investì e solo allora capì che l'albero respirava e che io lo stavo ostacolando.
"KALEL, tesoro, respira piano... brava così"
Lo strano uomo si è avvicinato al tronco e lo accarezzava con dolcezza paterna. Aveva le mani dure come cuoio. Le unghie sporche di terra e la pelle abbronzata. Sussurrava parole dolci alla pianta, ignorandomi completamente.
"Sono un terrestre e sono atterrato sul vostro pianeta per.."
"Potevi quasi ucciedere KALEL, mostro!"
"Mi dispiace, non conosco le forme di vita del vostro pianeta. Vengo in pace"
Assicuratosi che l'albero avesse ripreso a respirare, l'alieno si voltò e mi guardò negli occhi, per la prima volta. Aveva uno sguardo severo eppure disperato. Il volto era come il risultato di un grande puzzle, contrassegnato da solchi, avrebbe potuto andare in pezzi al primo movimento falso.
"La vogliono morta. Le restano pochi giorni di vita, il programma di eutanasia assistita partirà tra solo due lune e saremo tutti spacciati"
"Mi spiace non comprendo. Chi è KALEL?"
"KALEL è la mia vita, quella che stavi per portarti via poco fa!"
L'alieno, esasperato dalle mie domande, mi spiegò le strane leggi che regolavano la vita sul Pianeta Rosso. Dal suo racconto ho compreso che il mondo scarlatto è abitato da creature dalle sembianze umane che sin dalla nascita instaurano un legame indissolubile con l'Olea vitale. Dal momento dell'imprinting, l'esistenza degli abitanti del Pianeta Rosso dipende dalle piante.
"Sono alberi secolari. Se curati e amati arrivano a vivere fino a quattromila anni, ma da quando l'epidemia del mondo Xylleo è giunta fin qui, le cose sono cambiate. E ora vogliono lasciarci morire tutti quanti"
"Chi vuol lasciarvi morire?"
"Il comando supremo. Ha paura che tutto il pianeta venga infettato e ha progettato un piano di eutanasia assistita obbligatorio.."
Aveva le lacrime agli occhi e la voce rotta quando ha guardato KALEL prima di dirmi che il comando supremo non aveva permesso loro di provare a trovare una cura.
"Ci vogliono tutti morti e non ci resta che attendere le due lune. Straniero, non c'è nulla da esplorare qui. Torna a casa e vivi la tua vita, tu che puoi."
Sono atterrato su un problema e, abbandonando l'Enterprise per curiosarci, ne sono diventato parte integrante. Non posso restare indifferente. Non permetterò ai capi del Pianeta Rosso di uccidere la vita come le macchine hanno fatto sulla Terra. KALEL guarirà e il programma di eutanasia assistito verrà fermato.
La mia missione cambia da ora.
Fine del rapporto diario di viaggio Enterprise.
Capitano Green